Bambini

la cura psicologica è un bene di tutti

Perchè il mio bambino sta male?

L’immagine di un bambino è spesso associata all’idea di un soggetto incompiuto e imperfetto che non ha ancora maturato le capacità di pensiero, di ragionamento e di espressione tipiche dell’adulto.

Si tratta, in realtà, di un antico e mai superato retaggio culturale che considera l’età adulta punto di riferimento e nodo centrale della percezione e dell’interpretazione del mondo, anche di quello infantile, dando vita a stereotipi che possono ostacolare la comprensione degli aspetti caratteristici e creativi tipici dei primi anni di vita.

Occorre, invece, assumere un nuovo sguardo sul bambino come soggetto dotato di strumenti emotivi, cognitivi e comportamentali che gli consentono di avere una rappresentazione del suo mondo, di interagire con la realtà esterna e di esprimere la propria soggettività. Parliamo, quindi, di abilità peculiari e specifiche che distinguono l’infanzia da altri periodi della vita, il cui utilizzo rende il bambino capace di incidere attivamente sulla rete di relazioni che struttura il contesto sociale in cui è inserito.

Un contesto a cui il bambino è strettamente legato e ne è dipendente poiché si caratterizza come luogo naturalmente deputato al suo percorso di crescita fisico e psicologico, ma che egli stesso contribuisce a plasmare, con sempre più incidenza, in un movimento continuo di influenze reciproche. Si tratta, quindi, di un soggetto relazionale fin dai primi momenti di vita.

La famiglia, indipendentemente dalle forme che può assumere, rappresenta certamente il primo e più importante spazio interattivo in cui il forte investimento affettivo accompagnato da aspettative e convinzioni garantisce cura e sicurezza al nuovo nato, e veicola apprendimenti funzionali all’esistenza sociale.

È, tuttavia, evidente che oggi i bambini vivono in contesti sempre più variegati e stimolanti. A differenza di qualche decennio fa, in cui i primi anni di vita vedevano un contatto esclusivo tra il nuovo nato e le figure a lui prossimali, genitori e nonni, da qualche anno si assiste ad un inserimento sempre più precoce dei piccoli in luoghi sociali che vanno al di là di quello strettamente familiare: nido, scuola dell’infanzia, centri pomeridiani etc. Appare, dunque, più ampia e complessa la platea di adulti, che accompagna il percorso di crescita, e che può attivare uno sguardo attento sulle varie traiettorie di sviluppo perché è proprio in questa rete di relazioni, a lui conosciute e familiari, che il bambino può esprimere vissuti di sofferenza e difficoltà.

Le manifestazioni del disagio sono in linea con gli strumenti di cui egli dispone e con quello che è il suo vocabolario espressivo: può, quindi, parlare attraverso il corpo mostrando difficoltà nella sua regolazione (enuresi, encopresi), o attraverso una forte attivazione psicomotoria (comportamenti oppositivi, agiti aggressivi, intolleranza alle regole) oppure può esprimere rifiuto per il contesto scolastico e palesare varie forme d’ansia che denotano una fatica nel percorso di crescita. Le espressioni di una sofferenza sono tante e variegate: difficoltà nell’alimentazione, nel ciclo-sonno veglia, negli apprendimenti scolastici sono altri segnali di un disagio da decodificare e comprendere in relazione alle caratteristiche specifiche del piccolo, al suo sviluppo e al contesto in cui vive.

Agli adulti spetta, quindi, il compito di costruire con il bambino un dialogo in cui diventi possibile accogliere e dare voce alla sofferenza attraverso canali espressivi rispettosi della sua soggettività, e il gioco è certamente uno strumento privilegiato perché è ciò che il bambino tende a fare in modo spontaneo: è l’espressione di sé, specifica e personale, è l’alfabeto che utilizza per comunicare, conoscere gli altri e stare in relazione.

Il gioco non è un’attività fra tante ma è “lo stare al mondo” del bambino perché è ciò che gli consente di entrare in contatto con sé e con gli altri, e di affrontare situazioni difficili o scarsamente comprese. Dinanzi a eventi che il bambino sente come poco chiari o che gli provocano uno stato di malessere, la sua tendenza è quella di introdurre questi temi nelle attività di gioco. Pertanto è sulla base di questa idea che il gioco diventa quel linguaggio condiviso fra il bambino e lo psicoterapeuta, che può favorire la dimensione relazionale e comunicativa, fare luce su fragilità e sofferenze nascoste, trovare un canale espressivo con cui dare voce a emozioni inespresse, al di là delle parole.

Occorre dunque farsi aiutare e trovare un professionista con cui costruire una strada che consenta al bambino di Raccontarsi

Ma accogliere un bambino significa accogliere anche i suoi genitori con i quali condivide uno spazio, quello della famiglia, intimo, privato, carico di vissuti emotivi e di dinamiche complesse e significative che si intersecano con le difficoltà del nuovo nato. E ancora una volta, il gioco rappresenta uno strumento ricco, prezioso, insostituibile col quale genitori e bambino possono costruire nuove e diverse forme di dialogo, comprensione e incontro.

Nelle difficoltà che riguardano i bambini più piccoli viene di massima preferito un intervento con i genitori ed è con i più grandi invece che il bambino trova un suo spazio specifico nella scena della cura psicologica in forme diverse ed integrate con quelle previste per la sua famiglia.